La sera del ventottesimo giorno, proprio quando il sole scomparve oltre la linea dell’orizzonte, lasciando un mare infuocato sulle colline, lui tornò.
Con lo stesso passo lento e cadenzato con cui era partito camminò fino al mio trono e si pose seduto ai miei piedi, di fronte a me.
“Eccoti di nuovo tra noi, dunque. Hai mantenuto la tua promessa e io manterrò la mia. Sei il benvenuto nella mia casa.”
Chinò la testa in segno di approvazione, ma non disse nulla.
“Vuoi dirmi allora se hai trovato ciò che ti avevo chiesto per guarirmi?” domandai.
Nel guardarmi, alzando la testa, mi sorrise. Poi finalmente parlò.
“Non posso rispondere se non con le stesse tue parole di allora. -Il mio cuore giovane e allegro, che mai aveva saputo di tristezza, se non quella dolce dell’addio al sole al tramonto per ritrovarlo all’alba, del bacio al fringuello che ormai vola libero nell’aria, è addolorato da quando ho perso il mio adorato padre. Non è la paura del potere che ora mi spetta, o della solitudine da lui che non ho più con me. E’ questo compagno sconosciuto, di cui non sapevo l’esistenza, che ha atterrito il mio cuore che forse è morto.
Ti prego, va lungo le strade della notte e i viottoli dei giardini, fino alle città lontane e trova una medicina per guarire il dolore, per far tornare il cuore a vivere. Se farai questo entro la prossima luna avrai la mia gratitudine e con questa saprò ricompensarti.-
Eccomi dunque di ritorno, mia regina. Tu soltanto potrai rispondere se ciò che ti porto è la medicina che può guarire il tuo male.
La sera in cui lasciai la tua casa e il tuo dolore mi incamminai, come tu mi avevi detto, per le strade della notte indossando un mantello nero e scarpe di gomma per non svegliare l’oscurità che in questi luoghi viene a riposare.
Mentre lentamente avanzavo scorsi una figura chiara che si nascondeva dietro un albero. Poiché è la paura che rende pericolosi, decisi di non averne né di provocarne in lei. Così parlai ad alta voce.
-Non temere e non nasconderti. Ti ho visto, ma non voglio nuocerti, né ti temo. Se non vuoi parlare o farti vedere fuggi pure, se vuoi aggredirmi mi troverai pronto, se vuoi incontrarmi sono qui.-
Uscì da dietro l’albero una figura di donna, dai folti capelli lunghi e biondi, alta e snella, completamente nuda. Ma subito notai che all’altezza della vita rimaneva una zona d’ombra. Guardando meglio capii che erano due porzioni di donna, l’una sospesa sull’altra e che le mancava la congiunzione in quella striscia scura all’altezza della vita. -Cosa ti è successo lì?- le chiesi indicando col dito. Mi guardò intensamente, in silenzio.
-La paura degli uomini…- parlava con fatica, ansimando.
-Posso aiutarti?- le chiesi, vedendola in difficoltà.
-Non so- mi rispose con aria disorientata.
-Perchè?- proseguì, come per manifestare un dubbio interno più che per ottenere una risposta.
-E cosa vorrai da me, quale parte…-
Non riuscì a finire la frase, ansimava. -No, non voglio niente, niente che tu non vorrai darmi.-
-Ma io non ho niente.- disse, quasi reclamando.
-Allora non avrò niente. Vuoi permettermi di aiutarti, dunque?-
Lei abbassò la sguardo e chiuse gli occhi poi li rialzò con calma, li diresse verso di me.
-Va bene, voglio che tu mi aiuti- disse.
-Come posso farlo?- le chiesi.
-Se tu vuoi aiutarmi è sufficiente che cammini con me. Sei disposto a farlo?-
-Certo!- le risposi –non è difficile.-
-Allora avvicinati- mi disse.
Mi accostai e lei appoggiò un braccio al mio e mi prese dolcemente la mano e me la appoggiò sul suo fianco. Da vicino notai che era bella, ma pallida, quasi argentea, innaturale. Non si vergognava della sua nudità e al contatto la sua pelle era liscia e fresca, come l’aria della notte.
-Avanti- disse e la nota di terrore nella sua voce non fece in tempo a stupirmi che la sorpresa della sua andatura mi bloccò. Nel movimento la mancanza della connessione appariva in tutta la sua gravità. Le gambe, pesantissime, facevano resistenza, ed ogni passo si trascinavano come gambe di un vecchio ubriaco.
La mia mano serviva per imprimere un po’ di slancio al movimento, ma soprattutto per sostenere il bacino che sembrava dovesse cadere e ripiegarsi ad ogni movimento.
La parte superiore e l’espressione del viso mostravano tutto lo sforzo e la rabbia nel non riuscire a influenzare gli arti inferiori e la paura di non poter avanzare.
Con le braccia si attaccava ai rami e , facendo forza su questi e sulla mia mano, avanzava. Dopo un solo passo era ancor più pallida, e sudata, ansimante per lo sforzo. Mi rivolse lo sguardo, senza espressione. Feci un gran respiro, le dissi -Aspetta- poi le sollevai le gambe, le appoggiai i piedi sopra ai miei, e il busto al mio petto.
-Tieniti- le dissi.
-Fermati- mi disse ora con tono deciso. -Non stai mantenendo la tua promessa: io non ti ho chiesto di portarmi, ma di camminare con me. Se non vuoi farlo, va’.-
Avevo sbagliato, avevo cercato di risolvere il problema, per non vederlo. Senza dir nulla la rimisi giù e ricominciammo ad avanzare, lentamente. A mano a mano che camminavamo imparai a sostenerla in maniera più efficace, e l’andatura assunse un ritmo quasi regolare si velocizzò un po’. Stavamo in silenzio, concentrati sul movimenti fino a che lei alzò lo sguardo a cercare il mio.
-Non importa come, ciò che conta è che io possa camminare e migliorare.-
-Sì- le dissi soltanto.
-Ora possiamo andare nella radura- continuò.
Prendemmo uno dei viottoli del giardino, proprio come tu mi avevi indicato e pensai in che modo insolito mi stavo avvicinando alla meta. Dopo un lungo silenzio, e tanta fatica, arrivammo alla fine del sentiero dove si apriva un prato largo, ma strano. Prima di rendermi conto di ciò che mi si presentava davanti agli occhi lei mi parlò.
-Questa è la radura delle donnole, degli scoiattoli, dei cerbiatti uccisi dalla paura. La stessa paura che mi ha divisa e ha fatto di me due porzioni invece di una donna intera. E’ la paura che gli uomini e le donne hanno della bellezza e della meraviglia. La paura che rende deturpato e orribile ciò che è bello e inspiegabile e infelice ciò che è vivo. Io, le donnole, gli scoiattoli, il cerbiatto siamo tutti morti, almeno in parte. Se tu avrai tanto amore e tanta bellezza da darci potrai renderci di nuovo vivi. Altrimenti anch’io diventerò come loro.- E indicò il prato, ed era completamente scuro e lucido: erano corpi di animali divenuti ormai un’unica pellicola compatta.
Ero partito per trovare un rimedio per il dolore e mi trovavo ad affrontare la paura.
-Non amo la paura- le dissi.
-E non è lei che devi amare per guarirci, ma la bellezza e la vita che noi possiamo essere. Se tu l’amerai, la vorrai e non te ne spaventerai, noi potremo vivere ancora.-
Allora compresi e le sorrisi. Feci un bel respiro, poi cominciai a parlare.
-Amo che tu sia una donna intera e che tu sia bella. Amo i cerbiatti quando si fermano ad annusare e gli scoiattoli che mangiano le bacche. Amo le donnole che corrono veloci e amo i prati quando sono verdi.-
Ci fu come un fremito in tutta la radura e la ragazza sorrise annuendo con la testa. Cominciai a danzare tutto intorno cantando le meraviglie della vita, la bellezza degli animali, delle persone e dei prati verdi. A mano a mano che io cantavo lo scuro del prato diminuiva assumendo toni più caldi che impercettibilmente mutavano verso il verde, il marrone, il nocciola, a seconda dei punti.
La striscia scura sotto il busto della ragazza cominciava ad impallidire e ad assottigliarsi. Ma per ventisette giorni e ventisette notti ho cantato e danzato, e dormito e mangiato, dando felicità e gioia all’intera radura.
I primi scoiattoli si sono debolmente mossi sul prato, mentre le donnole e i cerbiatti stanno sdraiati respirando a pieni polmoni per riprendere energia.
La ragazza ha imparato finalmente a camminare e sta provando a danzare, così come io ho danzato. Sono quasi guariti.”
“Tutto ciò è molto bello e commovente,ma non capisco come questo possa aiutarmi a guarire, amico mio” dissi.
“Mia signora, lascia che io finisca il mio parlare prima di giudicare.” Annuii e lui riprese.
“La mattina del ventisettesimo giorno lo stesso che questo sole ha appena lasciato, dissi loro che dovevo partire e tornare qui. Dissi anche che ero sicuro che ormai erano guariti e che questa mia certezza sarebbe bastata anche dopo la mia partenza. Loro annuirono in silenzio e alcuni cerbiatti vennero lentamente a leccarmi le mani. Le donnole più robuste e più avanti nella guarigione mi vennero tutte intorno e gli scoiattoli mi guardarono fisso negli occhi per pochi istanti, come sono abituati a fare. Allora guardai la ragazza, ormai intera, anche se un po’ debole e incerta. Mi prese le mani.
-Non ho niente da darti se non quello che tu mi hai dato, la vita e la bellezza. Portale sempre dentro di te e ogni volta che penserai di non averne più torna da me e ritroverai sempre quello che mi hai dato.-
Compresi, mia regina, che amando la vita e amando loro il mio cuore aveva solo guadagnato e dopo ventisette giorni e notti di felicità donata partivo in realtà con ventisette giorni e notti di felicità vissuta.”
“Non trovo ancora una risposta per me in tutto questo.”
“E non te l’ho ancora data, se è questo che temi.
Ero felice e lieto dopo le parole della ragazza e anche se non avevo risposte da portarti, il mio cuore era pieno di emozioni intense che mi scuotevano tutto. Detti un ultimo sguardo alla radura e ai miei amici, abbracciai la ragazza e mi avviai.
In quel momento, mentre compivo il primo passo, sentii un gelo dentro il cuore così scosso dalle emozioni e per questo l’impatto fu più netto.
L’esperienza era stata faticosa e bella, ero felice di tornare da te, di proseguire la mia vita, eppure insieme a tutto questo sentivo che soffrivo, che provavo dolore.
Mi girai di scatto a guardare la ragazza. Stava lì come se mi aspettasse.
-Soffro- le dissi semplicemente. -Lo so, vieni.-
Mi prese le mani e ci sedemmo. Poi si chinò sull’erba, si bagnò la mano di rugiada e me la passò sulle guance che si inumidirono,.
A quel gesto, come ad un segnale convenuto, iniziarono ad uscirmi lacrime calde e salate che si mescolarono al fresco della rugiada.
Così piansi tenendo le sue mani appoggiate al mio viso. Poi la guardai e dissi -Questo non è Niente-.
Adesso so che ho qualcosa da dare anche io. Grazie.- mi rispose.
Le baciai quelle mani generose e gentili e vidi che il colore adesso era roseo, come il mio e non più pallido come la luna. Quel gesto l’aveva riscaldata,ora era veramente vive e guarita. Con nuova gioia e nuovo dolore finalmente partii. Ora se vorrai seguirmi, potrò darti la mia medicina, mia regina.”
Acconsentii. Lui mi prese per mano e mi portò fuori, nella notte umida. Si fermò soltanto davanti alla tomba di mio padre dove non ero mai voluta andare. Lì mi fece inginocchiare, insieme a lui, mi prese le mani, poi passò una delle sue sull’erba umida della sera davanti alla pietra bianca e mi bagnò lievemente le guance.
Così piansi a lungo, abbracciata a lui, e urlai tutto il mio dolore, la rabbia della mia impotenza davanti alla scomparsa di mio padre. Lui stette lì, in silenzio e mi tenne stretta finchè non mi calmai.
Quando sollevai la testa e ricominciai a respirare regolarmente, il mio cuore aveva ripreso a battere, a vivere. Anche lui aveva ripreso a respirare regolarmente e mi guardava sorridendo.
“Come potrò..”.
Mi interruppe “ho già avuto la mia ricompensa. E in abbondanza.”
La sera dopo era luna nuova.
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